Ritorno alla Cortina-Dobbiaco Run
La prima volta non si scorda mai, per la sua bellezza. La seconda volta è stata solo la riconferma, con gli occhi ammaliati dai ricordi. La terza il tentativo di fare di più, ma condizionato dagli eventi. Questa volta, dopo cinque anni, invece è diventata gara vera. Ma totalmente diversa. La Cortina-Dobbiaco Run ha l'incredibile capacità di stupire ogni volta. Basta lasciar correre le gambe.
Probabilmente mi sono lasciato condizionare dalla voglia di fare, anche se negli scorsi giorni un po' paura l'ho avuta. Dolori post-MoMot che non avevano lasciato presagire nulla di buono. Ma siccome dagli errori si impara, la settimana di scarico ha avuto i suoi benefici e, domenica mattina alla partenza da Cortina, mi sono ritrovato in condizione perfette. Qualche giorno di acclimatamento come per le migliori spedizioni himalaiane, anche grazie al lungo ponte del due giugno che non mi ha fatto cadere in tentazione di allenamenti miracolosi dell'ultimo minuto. E un week-end montanaro con tempo perfetto per godersi altura e pre-gara.
Non essere a Dobbiaco da qualche anno ha fatto tornare la voglia di tornarci. Anche perché dall'ultima volta ho lasciato un conto sospeso con il cronometro. Quel muretto delle due ore da provare ad abbattere. Cosa che forse sarebbe stata più facile qualche settimana fa, quando gli allenamenti mi avevano portato al punto di forma migliore, un po' meno in questo momento di inevitabile declino fisiologico. Passare però al villaggio-expo sabato mattina, con seconda toccata-e-fuga nel pomeriggio, mi ha fatto respirare quella sana voglia di provarci e di esserci che mi serviva. Vedere la corsa già nel vivo delle sue gare minori per meno esperti e bambini, sotto un sole caldo ma non fastidioso, ha creato quella giusta tensione per non vedere l'ora di trovarsi sotto la linea di partenza domenica mattina.
La salita verso Cortina con i bus (di linea) dell'organizzazione è stata decisamente migliorata rispetto a qualche anno fa, quando ci si stritolava come sardine per trovare un posto per non dover aspettare decine di minuti il ritorno delle navette. Ampi spazi per ingannare l'attesa al palazzetto di hockey e il tempo di salutare e scambiare quattro chiacchiere con i tanti amici incontrati. Le due ore pre-gara sono volate in un attimo. Quello che mi è mancato è stata la possibilità di fare il riscaldamento prima dello sparo iniziale. Partire e affrontare la salita a freddo non (mi) è stata cosa gradita. Fortunatamente gli insegnamenti del prof. Massini non sono andati sprecati ed ho fatto quel che ho potuto con qualche decina di minuti di capillarizzazione da fermo (flessioni sulla punta dei piedi, piegamenti sui talloni, propriocezione da fermo).
Nessun nome altisonante alla partenza, se non quelli del veterano Said Budalia, della promessa Nekagent Crippa e della sempre verde olimpionica Catherine Bertone, in mezzo ad uno stuolo di atleti africani. Ma gli applausi (e la pelle d'oca) sono stati tutti per il saluto di Leonardo Cenci, nome sconosciuto ai più, che da quattro anni combatte e corre contro un cancro che non riesce a sconfiggere la sua voglia di lottare. Nemmeno in gara.
Gli insegnamento di coach Fulvio non si sono limitati ai soli minuti prima del via, ma anche e soprattutto ai primi chilometri di gara, dove la voglia di far bene porta sempre ad esagerare e la costante salita del percorso di Cortina non aiuta certamente a capire il vero livello di sforzo impiegato in gara. Primo affrontare la prima parte di gara con calma. Trenta chilometri sono tanti in piano. In salita e in discesa sono ancora peggio. Ho spinto ma senza esagerare, lasciando allontanare chi ha provato subito ritmi più incisivi e senza lasciarmi ingolosire dai continui sorpassi alle spalle.
Fatica. Quello che ho provato fin dal primo minuto. Tanta fatica. Non essere abituato ad una costante ascesa è stato semplicemente pesante. Non mi ricordavo che il percorso fosse davvero così tanto impegnativo. Ma ho proseguito costante, con un orecchio puntato alle sensazioni, con i chilometri scanditi da cartelli e GPS, ma senza mai una volta guardare il display del Garmin Fenix 5X. Usciti da Cortina, il piccolo strappetto fuori paese ci ha subito indirizzati lungo il sentiero ghiaioso che non ci ha più abbandonato fino quasi all'arrivo. Diversamente dalle mie altre precedenti esperienze mi sono ritrovato quasi subito a correre in solitaria, con qualche singolo riferimento poco più avanti e passi in lontananza alle spalle. Alti abeti a destra e a sinistra, nuvole sopra la testa e umidità nelle ossa. Gli occhiali sono rimasti appoggiati alla fronte per tutto il tempo di salita, appannati ed inutili.
Ciò che mi è sembrato più strano di ogni cosa è stato non essere attratto e rapito dal paesaggio. Un aiuto importante per distrarre la mente. Forse sono rimasto concentrato eccessivamente dall'ascoltarmi. O forse è solo stata una giornata che non ha esaltato le bellezza naturali della vallata. O semplicemente l'abitudine e i ricordi che si sono accavallati a quello che stavo facendo. Più di ogni altra volta ho vissuto la gara intensamente, concentrato più sull'aspetto sportivo che su quello emotivo. Soffrendone. Ho riconosciuto subito tutti passaggi del percorso, ma visti quasi come se fossero in bianco-e-nero e non più a colori. Lo spiazzo del primo ristoro, la prima spartana galleria poco prima del settimo chilometro, alta e stretta, come fosse uscita da un cartone animato. Il ponte di legno sospeso sull'orrido echeggiante e il passaggio nella seconda galleria, breve e fredda. Pensavo poi di incontrare quel paesaggio incantato tra erba verde, rigagnoli freschi e calmi, alberi che fanno da tende al sole. Ma ricordo solo il grigio del sentiero, con i sassi diventati tutti terra battuta. La continua salita. I continui sorpassi.
Non ho avuto idea di quale fosse il passo di gara. Mi sono solo visto superare da forse troppi avversari senza volutamente reagire. Risparmiare le energie per il finale. E intanto i chilometri sono passati, col pubblico sempre più presente lungo i sentieri, tra i prati, dietro agli alberi. Applausi che si sono susseguiti senza il beneficio sperato di una mano che ti spinge su per la salita. Il punto più critico è stato lo strappo subito dopo l'ottavo chilometro, seguito da un forte rallentamento intorno all'undicesimo. Poi finalmente al Passo Cimebanche lo scollinamento e le gambe che hanno iniziato a girare come se una molla le avesse caricate per tutta l'ora e un quarto precedente.
A memoria (e a ricordo dagli insegnamenti nei briefing pre-gara degli altri anni) il consiglio appena scollinati è sempre stato quello di non buttarsi a capofitto dalla discesa per non rimanere imballati alla seguente salita (in realtà un pianoro) tra il 18 e il 20 Km. Ho cercato di trattenere le gambe ma ancora una volta ho voluto ascoltare più di ogni altra cosa le sensazioni, che questa volta mi hanno detto di andare (non al massimo) e di non perdere altre posizioni. Ed ho spinto, giù per la discesa, guardando solamente dove appoggiare i piedi e contando i chilometri che mi stavano ancora separando dalla fine. I momentanei compagni di corsa si sono susseguiti velocemente, ma questa volta iniziando a rimanere alle spalle invece che davanti. La fatica di fiato della prima parte si è di fatto trasformata in una fatica di gambe, con anche, cosce e caviglie che si sono sobbarcate tutto il peso della discesa.
Dai 4' 20" della salita il ritmo è passato ai 3' 50" e anche la strada è diventata più amica. Ma sempre grigia. Rispetto a quanto mi ricordassi il percorso è diventato meno aspro, più facile da correre, con alcuni passaggi decisamente migliorati. Il pubblico sempre uguale, presente, infreddolito, costante.
Quello che alla Cortina-Dobbiaco Run fa però la differenza sono gli ultimi cinque chilometri, da quando ci si lascia alle spalle l'ultimo ristoro lungo la strada veicolare che scende verso il paese. Chi ha spinto troppo si trova senza energie. E Dobbiaco sembra allontanarsi sempre più. Il percorso è un continuo slalomare lungo il tracciato che arriva fino al piccolo laghetto. Un infinito che sembra ripetersi costante, con le gambe che cercano di rincorrersi vorticosamente, il ritmo che sale poco a poco seguendo l'onda del terreno. Gran parte di quelli che in salita mi avevano lasciato indietro sono tornati alla loro posizione originale. Solo qualcuno ha cercato di resistere, cedendo poi nel finale.
Ciò che non mi sarei aspettato però è stata la fitta che mi ha colto appena ripresa la strada che scende verso Dobbiamo. Lo stesso dolore subìto negli ultimi chilometri alla Conero Running. Un dolore acuto all'addominale alto sinistro. Come una coltellata. Ho provato a resistere, cercando di farla passare con la respirazione di diaframma, con qualche massaggio, diminuendo il passo. Ma la discesa ha continuato a spingere le gambe, facendomi quasi vacillare. Ma fino al traguardo ho dovuto condividere le mie gioie col dolore.
Distratto dal problema improvviso non mi sono riuscito a godere nemmeno gli ultimi mille metri, già alla ricerca di Tommaso con i nonni ad aspettarmi lungo il percorso. Ma senza purtroppo vederlo. Un arma in meno per il mio finale. Mi sono accontentato quindi di controllare il passo, guardandomi alle spalle per non perdere posizioni, ma con la sicurezza di arrivare in solitaria. Gli ultimi cinquecento metri, come ogni volta, si sono corsi in mezzo a due ali di pubblico festante e urlante. I bambini protesi per un cinque e i genitori ad applaudire costantemente. All'ultima curva nel parco di arrivo ho visto il 2 delle ore apparire sul cronometro ancora troppo lontano per batterlo e non mi è rimasto che godermi gli ultimi venti secondi di gara guardando la strada davanti a me aprirsi. Silvio Omodeo mi ha dato il benvenuto dall'altra parte delle transenne mentre una ragazzina mi ha infilato timidamente il nastro fucsia della medaglia al collo. 2h 00' 23" e cinquantesima posizione assoluta (8° di categoria).
Anche se c'è stato qualche secondo di troppo è stata la gara che avrei voluto fare. E sono contento di come l'ho gestita e di quanto sia stato preciso il passo. Forse avrei potuto abbassare di qualche secondo unendomi al giusto treno in salita. Ma non sarebbero stati quelli a fare la differenza. Quello che lo ha fatto è stato invece vedere Chiara arrivare qualche minuto dopo di me, finalmente insieme sotto un altro traguardo. Una Cortina-Dobbiaco Run che forse per tutti e due ha avuto un sapore diverso da quello che ci ricordavamo, ma che alla fine è stata quello che abbiamo voluto.
Il ricordo più bello che però avrò di questo lungo week-end sono le parole che un amico di Corro Ergo Sum ha lasciato tra le pagine di Twitter... "Ciao ti ho riconosciuto dal tattoo sul polpaccio! In bocca al lupo per domani! Sei un gran babbo altro che runner! Daje!" Si, questa volta ho decisamente vinto.