Conero Running, storia di un personale
Alla fine venticinque secondi sono un nulla. Ma in quei venticinque secondi sono raccolti i miei ultimi cinque anni da runner. E non solo. Dai primi podi che hanno aperto un nuovo ciclo e un nuovo modo di correre, ai primi infortuni che hanno influenzato mese dopo mese anni di allenamenti e rincorse. Venticinque secondi lunghi ventuno chilometri.
La prima volta sotto l'ora e venti in mezza maratona mi aveva illuso che sarebbe stata tutta una facile rincorsa verso nuovi traguardi. Ma la realtà in questi anni si è dimostrata più dura di quanto potessi immaginare. Se ci sono voluti cinque anni per riuscire a correre più veloce, vuol dire che qualcosa non è andato per il verso giusto. Ma alla fine sono arrivato dove volevo. Tempo ce n'é ancora per migliorare, ma la cosa importante è aver capito dove non sbagliare. Ad ogni infortunio un po' più serio mi sono sempre ripetuto che sarebbe stato l'ultimo, ma con la testardaggine di non voler imparare. Non in tutto per lo meno. Ma dopo il deludente forfait alla Maratona di Firenze in autunno e il lungo stop durato quasi due mesi, ho avuto il tempo di riflettere e capire. Per riprovare a ricominciare in maniera diversa. E forse questa volta ho davvero trovato la risposta ai miei guai.
Se solo tre mesi fa avessi pensato di poter correre 21 Km ad una media di 3' 46" non avrei creduto che sarebbe stato più possibile. Quando a gennaio ho ricominciato con le prime corse, ho faticato a mantenere i 3' 50" in poche ripetute da mille. Ma la costanza e la voglia di rivincita hanno avuto la meglio. Fortunatamente. Ho cambiato radicalmente il modo di approcciarmi agli appuntamenti. Basta scadenze ravvicinate e basta programmare gare quando la forma non c'è. E così ho potuto correre liberamente, senza la frenesia di rincorrere un traguardo troppo presto. E solo quando ho capito di poterci provare ho rischiato. Alla fine il segreto è tutto nello scoprire i propri limiti (attuali) e cercare di raggiungerli. Non di fare di più. Ma soprattutto ho imparato, come mi ha sempre insegnato il caro amico Franco, che il cronometro deve essere un compagno, non un'ossessione. E questa è stata forse la cosa che più di tutte mi ha fatto fare il salto di qualità. Che mi ha insegnato a conoscermi ancora di più ad interpretare la mia corsa. Passo dopo passo.
Mi ero ripromesso di correre la Conero Running come ho fatto nelle ultime settimane in tutti gli allenamenti. GPS al polso, ma solo per ascoltare il bip regolare del passare dei chilometri e solo dopo controllare tempi e cardio. Una bella scommessa. E una bella scoperta. Perché senza l'influenza del cronometro sono solo le sensazioni quelle che si possono ascoltare. E le sensazioni non tradiscono. Quando poco prima del via Giampiero mi ha chiesto in quanto volessi correre, la mia risposta è stata "non so". E non per sbruffonaggine o per scaramanzia, ma perché realmente non sapevo cosa e quanto avrei potuto fare. Un sogno l'ho sempre avuto, fare il personale dopo tanto tempo. Ma anche qualcosa in più se ci fossi riuscito. Ma sapere di poterci riuscire veramente è stata un'incognita alla quale non sarei stato in grado di rispondere a priori.
Più di duemila alla partenza dal porto di Numana tra mezza maratona, diecimila non competitiva e camminata per tutti. Stretti come sardine sotto l'arco di partenza ad aspettare uno sparo di pistola che non è mai arrivato. Clima caldo prima del via, ma fresco per la restante ora e mezza di gara. Dopo il rompete le righe dello speaker la sorpresa più grossa è stata trovarsi proiettati tutti nel primo gruppo di testa senza quella frenesia di stare davanti a tutti al primo chilometro di gara. Partenza controllata anche dei più forti che ci ha fatto intraprendere la saltella iniziale senza disperdere inutili energie già dai primi passi. Mi sono semplicemente accodato al gruppo, seguendo il ritmo che mi è sembrato da subito fin troppo semplice (3' 40"). Mare a sinistra e strada sgombra da auto davanti a noi. Giornata perfetta per correre, con un leggero vento laterale che non ha dato fastidio per tutto il tratto di andata. Direzione Porto Recanati, attraversando centro e lungomare di Marcelli. Piccola variante nella parte centrale del tracciato rispetto alla mia prima volta, ma decisamente ben congegnata. Percorso praticamente dritto in dieci chilometri e mezzo di andata e altrettanti di ritorno, con solo qualche sporadico strappato ben distribuito lungo tutto il tracciato.
Pur non controllando il cronometro ho sentito il ritmo impostato dai primi alla mia portata e mi sono lasciato trascinare fino a quando le file non si sono allungate, rimanendo accodato alla coppia dell'Atletica Civitanova che mi stava precedendo. Non avrei voluto sentirlo, ma mi sono sembrate subito chiare le loro intenzioni di correre ad un ritmo tra i 3' 40" e i 3' 45". Abbiamo fatto scorrere chi ha pensato di poter mantenere un ritmo più alto, lasciando ai chilometri mancanti il compito di fare la selezione prima dell'arrivo. Scortato dal duo-apripista, ho pensato solo a rimanere coperto dalla loro scìa il più possibile e di non lasciarmi staccare anche nei possibili cambi involontari di ritmo. I chilometri sono passati a fatica, col giro di boa che è sembrato non arrivare mai.
Conero Running. Gara, partenza e premiazione per il 3° posto di categoria.
La cosa più difficile è stata occupare la mente, distogliendola continuamente dall'attenzione alla stanchezza crescente. Non concentrarsi sul ritmo da mantenere, non fare calcoli cronometrici di chilometro in chilometro, ha reso difficile non ascoltare ogni piccolo dettaglio richiamato dai muscoli. Le gambe che diventano più pesanti dopo ogni singolo chilometro, il cardio che sembra pulsare sempre più forte (anche se la crescita è stata regolare e senza strappi, con una FC media di soli 165 bpm). Fortunatamente la giornata fresca e col cielo leggermente coperto ha evitato di soffrire la sete. Però è stato bello riuscire a gestire la corsa in maniera differente. Combattendo contro sé stesso, ma facendo gara su qualcun altro. Provando a correre insieme, aiutandosi, per poi dare la zampata finale solo quando è il momento decisivo. Questo è stato importante per andare avanti. Probabilmente se fossi rimasto solo, non sarebbe finita nella stessa maniera.
Il nostro piccolo gruppetto è diventato un quartetto intorno all'ottavo chilometro, poco prima della salita del cavalcavia per entrare a Porto Recanati. Salita che ha spezzato le fila, ha lasciato qualcuno sulle gambe e ci ha letteralmente gettati dentro le vie semideserte di Porto Recanati. Curve che hanno interrotto il lungo rettilineo partito a Numana, mescolando gli equilibri fino a quel punto inalterati. Curve, brevi saliscendi, cambi di terreno. Ma soprattutto il vento che è diventato contrario. Ma il giro di boa ci ha anche messo in direzione dell'arrivo, sempre visibile ai piedi del Monte Conero anche a dieci chilometri di distanza. Dove saremmo dovuti ritornare. Da gruppo siamo diventati un lungo trenino, tutti in fila a sfruttare la scìa di quello più avanti. E come ciclisti datati a darsi il cambio per mantenere il ritmo. Il mio turno è arrivato poco prima del passaggio sotto il cavalcavia, nell'unico tratto sterrato di qualche centinaio di metri che abbiamo incontrato. Dura stare davanti. Ma forse ancora più duro è stato recuperare.
Quando mi sono scansato per rientrare nelle fila, circa al quattordicesimo chilometro, ho probabilmente pagato lo sforzo. Cosa non visibile dal cronometro, rimasto abbastanza costante (3' 48") anche in quel tratto fino all'intermedio successivo. O forse son stati i miei avversari ad allungare il passo per andare a prendere i fuggitivi che dopo quindici chilometri abbiamo lasciato alle nostre spalle. Ma prima ho dovuto lottare con tutte le forze per resistere alla piccola crisi che mi ha raggiunto. I metri di distacco sono cresciuti di passo in passo, fino ad arrivare ad una quindicina. E sono rimasto solo. Ho solo ascoltato le forze residue e le sensazioni di gambe e testa per capire cosa fare. Ma vedendo poi inalterata la distanza che mi stava separando dai miei vecchi compagni, ho provato ad allungare, piano piano, per rientrare al riparo dal vento. E credo che il nuovo personale sulla mezza, sia nato esattamente in quel momento. Un chilometro per recuperare un metro dopo l'altro, rivedendo avvicinarsi le fila e poi ritrovarsi nuovamente coperti dall'aria, con il tempo di rifiatare per riprendere il controllo della corsa. Un'azione che mi ha stupito, ma che mi ha dato la fiducia necessaria per non mollare più per i cinque chilometri seguenti. Intanto un avversario dopo l'altro è rimasto alle spalle, riducendo lo svantaggio da chi ci stava immediatamente davanti. La crisi che solitamente mi coglie tra il diciassettesimo e il diciottesimo chilometro non è mai comparsa. Marcelli si è riavvicinata e con lei i chilometri che ci hanno separato dalla fine.
La prima vera azione di attacco all'interno del gruppo è partita a due chilometri dall'arrivo, esattamente al cartello dei diciannove chilometri. Un po' presto per me di reagire. E coscienziosamente sono rimasto accodato a chi mi stava davanti, in attesa di incontrare l'ultimo cartello. Quello che non avevo calcolato è stata la fitta improvvisa al fianco/addominale sinistro che mi ha martoriato fino al traguardo. Un dolore che non mi sarei aspettato, forse dovuto allo sforzo per non perdere terreno, che però mi ha rallentato di qualche secondo. Ho provato a controllarla, a regolare la respirazione, a massaggiare. Ma nulla. Chi mi stava davanti ha allungato e chi alle spalle mi ha superato. Ho provato a reagire allungando il passo. Niente. Solo all'ultimo chilometro ho riprovato a spingere al limite, stringendo i denti. Ho guardato per la prima volta il cronometro leggendo un 1:15 e qualche secondo (imprecisato) che mi ha dato fiducia, addirittura sperando in un possibile diciotto finale tra i minuti. Ed ho corso a più non posso, scorgendo proprio all'ultima curva Chiara e Tommaso che mi stavano aspettando e lanciandomi nella discesa finale per non perdere altre posizioni. A pochi metri dal traguardo il crono ufficiale, comparso piano piano da dietro le fronde delle piante ha infranto il mio sogno. Ma non la mia mezza più veloce di sempre, 1h 19' 08" (tredicesimo assoluto e terzo di categoria SM40).
Raccontata così può sembrare tutto facile. Ma in mezzo c'è stata una fatica costante, quella fatica che ti fa pensare "ma chi me l'ha fatto fare". Quello sforzo che sembra impossibile da mantenere fino alla fine. E il ricordo di tutti gli allenamenti fatti per arrivarci, che sembrano essere passeggiate al confronto. Qualsiasi risultato, qualsiasi corsa, non si può ridurre al tempo di gara. Tutto parte inevitabilmente settimane o mesi prima. La rincorsa alla partenza è solo il finale che non si deve sbagliare. Quello di cui sono contento (maledicendo comunque quei dieci secondi in più sul tempo finale) è aver trovato l'equilibrio. Il metodo. La strada. Ascoltarsi prima di guardare il polso. Conoscersi prima di voler raggiungere il traguardo. E ogni volta spostarlo un po' più in là. Si ricomincia.