Alla fine Firenze Marathon
Non pensavo mi sarei emozionato così tanto pur non correndo. Invece in ognuno di quelli che hanno tagliato il traguardo di fianco al Battistero di San Giovanni è arrivata anche una parte di me. Con chi ha esultato a braccia alzate, con chi è arrivato zoppicando per i crampi, con chi è scoppiato in lacrime ancora prima della linea di arrivo. La chiamano maratona, ma è qualcosa che va oltre l'umana comprensione.
Probabilmente, inconsciamente, sapevo che questa Firenze Marathon sarebbe dovuta essere mia. Mesi di preparazione dal caldo estivo al freddo autunnale, passando tra salite e discese, ripetute e gare settembrine. E mi sono trovato prima alla partenza e poi all'arrivo, ma al di là di quella semplice linea che ti trasforma da runner a spettatore. Quando sabato mattina passeggiando per il centro della città mi sono imbattuto casualmente con il portale di partenza appena innalzato di fronte al Duomo ho avuto come un brivido (non per il freddo). Sapevo che sarebbe stata la partenza più bella di sempre della maratona viola e un tremore di tristezza mi ha attraversato. Non è bastato immortalare il momento. E tutto quello che ho immaginato in quei pochi istanti si è trasformato in realtà solo ventiquattr'ore dopo, quando i quasi diecimila si sono riversati lungo Via dei Calzaiuoli fino a riempire Piazza della Signoria. Una marea umana, la solita marea umana, che ha attraversato il centro della capitale toscana riempiendola di colore, sudore e fatica.
Mi ha fatto piacere incontrare tanti amici. Non mi ha fatto piacere ripetere ad ognuno l'in-bocca-al-lupo per la loro maratona, aspettando di vederli passare la linea d'arrivo. Perchè su quella linea ci sarei voluto arrivare anche io. Stanco. Sudato. Distrutto. E' strano come si desideri sempre quello che non si può avere. Ogni volta che ci si trova dentro le transenne si sogna quel momento in cui tutto è già finito, in cui le gambe finalmente possono riposare, in cui il corpo può rifiatare, in cui la testa si può spegnere. Ma una volta al di qua di quelle stesse, si desidera solo esserci, riprovare quella fatica, sentire quel dolore, assaporare ancora una volta il desiderio di essere oltre il limite. Mi manca quel traguardo. Mi manca quel continuo sbalzo d'umore regalato da un solo secondo in meno sul cronometro o da un sorso d'acqua all'ultimo ristoro. E camminando controcorrente, ho invidiato ognuno di quelli incrociati e incitati con Tommaso in braccio, che arrivassero sotto le tre ore o che ce ne impegassero cinque. Perchè alla fine di tutto conta solo esserci.
Le stesse emozioni della partenza me le ha regalate anche l'arrivo. Prima per quelli veloci, top-runner che sembrano volare sull'asfalto. Che corrono per motivi differenti e che non sembrano provare le stesse emozioni. O forse si. La smorfia di dolore e fatica di Fatna Maraoui (seconda assoluta, prima italiana e con il nuovo record italiano femminile di Firenze) con quel suo correre sgraziato; la voglia di rivalsa di Dario Santoro (Campione Italiano di Maratona del 2015, ottavo assoluto) che si è schiantata al trentanovesimo chilometro sul muro delle due-ore-e-venti; l'esordio vincente di Eyob Gebrehiwet Faniel (terzo assoluto), itagliano naturalizzato, che però festeggia sul podio con la bandiera (sbagliata) della sua vera (?) nazione (!). Poi l'arrivo dei restanti-mila. Tutti uguali, ma anche tutti così diversi. E non solo per il tempo sul cronometro. Storie di vita quotidiana, di chi combatte tutti i giorni per trovare il tempo di allenarsi, tra lavoro famiglia infortuni. Basta guardarli negli occhi per scoprire cosa voglia dire quel traguardo. E le mani del pubblico hanno battuto per tutti, dando un'ultima spinta a chi non ce la faceva più o esaltando i più freschi nell'allungo finale. Un arrivo che è un continuo replay. Un loop che si ripete dal primo all'ultimo, cambiando ogni volta il protagonista.
La mia maratona si è consumata tutta in quella piazza. In quei due momenti che sanciscono inizio e fine. Ma il bello è tutto quello che c'è in mezzo. E che mi sono perso. Un viaggo interrotto che nessuno saprà mai come sarebbe potuto finire. Ma è stato l'unico modo per mettere la parola fine. Azzerare. E adesso ripartire. Con negli occhi la stessa voglia di chilometri di tutti quelli che sono passati sotto l'arco della partenza e nelle gambe quegli ultimi residui di forza per arrivare ancora una volta oltre il traguardo.