Ineos 1:59: la leggenda di Kipchoge
Un po’ mi dispiace per tutti quelli che denigrano l’impresa di Kipchoge a Ineos 1:59. Aiutati o non aiutati, correre una maratona sotto le due ore (1h 59’ 40”) è un’impresa titanica. Abbiamo assistito ad un evento epocale e dovremmo gioirne (sportivamente parlando) tutti, invece di trovare sempre una scusa per attaccare qualcuno. Ma sarà il tempo a rendere giustizia. I record restano, le polemiche passano.
Potremmo ricordare il miglio di Bannister, primo a correre sotto i quattro minuti i milleseicento metri. Potremmo parlare dei cento metri di Jim Hines, primo a scendere sotto i dieci secondi. Potremmo anche tirare in ballo il rivoluzionario Tommie Smith per i duecento, primo a tagliare il traguardo in meno di venti secondi. Di esempi ne possiamo trovare a decine, basta sfogliare un almanacco di atletica leggera.
I più acerrimi nemici del record di Kipchoge attaccheranno subito dicendo che quei record sono tutti fatti in gara. Vero. Pur vero che sono stati quasi tutti fatti in pista in condizioni quasi ideali, anche se contro altri atleti. Ma guardando un po’ più in là, qualcuno (seppur datato) si dimentica dei festeggiamenti per il record dell’ora di Moser del 1984, primo ad abbattere il muro dei cinquanta chilometri. Corsi in condizioni ideali e per la prima volta con ruote lenticolari. Oggi chi si ricorda di tutti i suoi detrattori di allora? Nessuno. Parto da questo per dire che, tra un anno o tra cinque, probabilmente ci sarà qualche altro atleta che vorrà provare ad abbattere il record di Kipchoge registrato in Ineos 1:59. E allora anche quella diventerebbe gara, sfida. Un po’ come i tentativi di battere il record dell’ora ciclistico (che, ricordo, ha quasi centotrent’anni).
Sono il primo ad essere consapevole che correre una maratona in condizioni non ottimali, gareggiando in mezzo ad altri runner, con temperatura ed umidità improvvisate, sia un’altra cosa. Ma in alcuni casi (ricordo solo l’ultima maratona femminile corsa ai Campionati Mondiali di Doha) anche una sfida impossibile da accettare per provare a fare il record mondiale. Allora si dovrebbe parlare sempre di gare impari, perché le condizioni di ogni gara sono diverse l’una dall’altra. O perché i percorsi, seppur omologati, sono uno differente dall’altro. Vorrebbe dire che “non vale” andare a provare ad fare il primato mondiale a Berlino, immersi in lunghi e dritti viaggino asfaltati, perché lì è troppo facile. Sarebbe più vero ed emozionante farlo a Roma, tra sampietrini e continui saliscendi.
Io personalmente ho gioito quando ho visto Kipchoge tagliare il traguardo di Vienna. Mi sono emozionato. Due anni fa ero in pista a Monza a vederlo sfrecciare sul circuito. Bello, sorridente, pulito, elegante. Al suo fianco due atleti che hanno mollato ben prima del traguardo, a dimostrare che anche con gli "aiuti tecnologici”, se non hai gambe, fiato, cuore e testa non è così facile e immediato riuscire un’impresa che ha quasi del sovrumano. E proprio da quell’episodio voglio cogliere quello che oggi Kipchoge ha insegnato a tutti noi che amiamo il running e la maratona. Dalle sconfitte bisogna solo ripartire e guardare avanti. Sorridenti, come aveva concluso la sua prima sfida a Breaking 2. Sorridenti, come ha ricominciato e concluso la sua sfida a Ineos 1:59.
E per chi non se lo ricordasse, il 2h 01’ 39” (attuale record del mondo ufficiale sulla distanza della maratona) è sempre stato registrato da Kipchoge. Chi volesse dimostrare di essere più forte, prima dovrebbe passare da quello. Poi, se ne avrà il coraggio, da Ineos 1:59.