Felicità alla New York City Marathon
Brividi. Sono la prima cosa che mi viene in mente pensando alla New York City Marathon appena conclusa. Emozioni che si sono susseguite, ingarbugliate di miglio in miglio e che poco alla volta hanno lasciato spazio alla fatica crescente della seconda parte di gara. Per la prima volta in una maratona non ho guardato cosa dicesse il cronometro, rapito dall'entusiasmo che ci ha presi e sospinti verso Central Park, concentrato solamente nell'assaporare ogni singolo momento di quell'infinito viaggio.
Una felicità che difficilmente si può spiegare. Forse solo le fotografie dell'arrivo possono riuscirci. Come è difficile poter spiegare a parole, dette o scritte, cosa voglia dire correre tra le strade di New York la sua maratona. Che solo adesso, dopo averla provata, ho potuto capire (scoprire) cosa sia realmente. Ne parlo da convertito, da chi ha sempre pensato ad un'esagerazione, da chi ne ha sempre parlato da detrattore, da chi ha sempre creduto che le vere maratone fossero altre, da chi ha sempre corso la sua maratona come se fosse l'ultima. E invece questa volta, anche con un po' di fortuna, ho scoperto che non tutte sono uguali. Che forse, se la New York City Marathon è considerata la più bella maratona del mondo, un motivo per esserlo ce l'ha davvero. Ed anche un motivo per essere vissuta in un modo diverso.
Ne ho seguite tante di edizioni, ma tutte in televisione, guardando sfrecciare i primi della classe tra i cinque distretti, solo con qualche piccolo misero flash sul vero cuore che la compone. E New York, forse proprio più di ogni altra maratona, dovrebbe essere proprio quella in cui andare oltre alla semplice gara, far vedere, capire, provare a spiegare quale sia anche solo l'importanza di esserci.
Sono stato fortunato. Perché esserci stato ed averla potuta correre senza che fosse la maratona del mio obiettivo stagionale, mi ha permesso di viverla fino in fondo, concentrato su tutto quello che regala, dimenticando per un volta (per fortuna) il ticchettio insistente delle lancette dell'orologio. Certo, avrei voluto fare di meglio. Ma non ho assolutamente rimpianti per come è andata, contento di essere riuscito ad assaporarne la vera essenza ed aver vissuto un'esperienza senza eguali.
Esserci per lavoro, oltre che per correre, mi ha anche permesso di vivere tutto il pre-gara un po' più distaccato, analizzando un mondo frenetico ed enorme rispetto a quanto sono abituato a vedere. Come già scritto precedentemente, una macchina che ingloba tutto quello che può esserci di contorno ad un evento simile e che non lascia nulla al caso, dalla sicurezza al puro progetto commerciale che lo accompagna. Tra appuntamenti ed eventi, ho camminato e corso più nei giorni precedenti la maratona che nelle settimane di preparazione, rischiando di arrivare fin troppo stanco al momento della partenza, che in realtà si è poi dimostrato meno tragico di quanto mi aspettassi dai racconti di chi già l'aveva vissuto.
Staten Island
Svegli all'alba domenica mattina e lungo viaggio di più di un'ora per raggiungere Staten Island, la terra dove tutto comincia. Lunghe file di autobus scortati dalla polizia tra le strade della città. Giornata umida, qualche goccia di pioggia e un po' di vento. Ma temperatura ideale per correre (13/14°C). Il grande prato del pre-gara già colmo di migliaia di maratoneti sdraiati e racchiusi in sacchetti di plastica, tute da imbianchino, accappatoi. Ho sempre pensato che le tre o quattro ore di attesa del via sarebbero state deleterie. Invece tutto è passato talmente in fretta che quasi non ho avuto il tempo di godermelo. Come mostrato in diretta-video (qui sulla pagina Facebook ci Corro Ergo Sum e qui su quella di Runner's World) siamo stati più fortunati di altri essendo ospiti dello sponsor tecnico di gara, New Balance, avendo a disposizione tenda riscaldata e ristoro pre-partenza. Ma non sarebbe cambiato molto anche non avendoli avuti, dato che tra una ripresa video, due chiacchiere col prof. Massini, il tempo del cambio e l'entrata nel corral un'ora prima della partenza, il tempo è volato in un attimo. Impressionante la dimensione e la perfetta organizzazione del villaggio di partenza, con indicazioni, chiare e precise su come muoversi e altoparlanti che hanno dato avvisi chiari e precisi in tutte le lingue.
New York City Marathon: alla sede dei New York Road Runners con la redazione di RW e New Balance (1), foto logo della NYC (2), insieme a Emma Coburn (3) e alla partenza da Staten Island con i ragazzi di MyFutureSelfNY.
Fortuna che mi ha "perseguitato" ancora nell'attesa dello sparo, facendomi incontrare con Emanuele col quale ho poi condiviso le seguenti due ore e mezzo della giornata. Chiacchierando non abbiamo subìto lo stress dell'attesa, ritrovandoci al momento dell'inno nazionale statunitense quasi senza accorgercene. Cento metri e circa un migliaio di persone ci hanno separato dalla linea di partenza, per poi improvvisamente decuplicarsi non appena abbiamo iniziato la nostra corsa attraversando il Ponte di Verrazzano. Partenza in salita (in ogni senso) per quasi due chilometri. Confusa, difficile, pressata, lenta (4' 50" il primo chilometro). Ma non avendo nessun obiettivo cronometrico non ce ne siamo preoccupati, pensando solamente a non subire il forte e freddo vento iniziale. Due, tre, forse quattro, le strade che si sono attorcigliate prima di ritoccare la terra ferma, attraversate da migliaia di maratoneti. Poi è stato il momento in cui è iniziato ufficialmente una delle esperienze più esaltanti che un runner possa pensare di poter vivere.
Brooklyn
Appena atterrati a Brooklyn siamo stati travolti da un'ondata di applausi, urla, scampanellii, sorrisi, mani tese, cartelli, musica, grida, saluti, colori, cori. Marciapiedi, balconi, terrazzi pieni di persone, palchi con piccole band, negozi con stereo a palla. Un'inaspettata (per me) atmosfera di festa, di vittoria; un entusiasmo contagioso, un vortice inarrestabile dal quale è stato impossibile uscire, che ci ha trascinati passo dopo passo, un miglio alla volta, rubandoci l'energia. Ma ridandocene il doppio. Con Emanuele ci siamo guardati più di una volta, sbalorditi, increduli, con i brividi sulle braccia coperte dai manicotti della divisa. Un calore che avrebbe riscaldato chiunque, un'energia vitale che ha fatto scorrere la strada come se ci trovassimo su un tapis roulant infinito. Non abbiamo potuto fare a meno di spostarci lateralmente non appena le fila si sono aperte, allargando le nostre braccia e lanciando le mani per una serie infinita di cinque battuti su quelle di adulti e bambini, che ci hanno guardato arrivare sperando in un saluto personale quasi fossimo le rock-star che stavano aspettano da tempo. Energia che più di una volta ci ha fatto aumentare il passo oltre il consentito, trascinati dall'adrenalina che ha riempito le gambe ogni volta di energia rinnovata. La stessa che abbiamo lasciato lungo i marciapiedi per chi è arrivato poco alla volta dopo di noi. Brooklyn è proseguita così, di chilometro in chilometro, di miglio in miglio. Un lungo rettilineo senza inizio né coda, coperto da canotte colorate come in una parata.
Avevo previsto di correre la prima parte di gara a ritmo lento, tra i 4' 30" e i 4' 20", per poi aumentare di dieci o quindici secondi nella seconda parte. A volte il passo ci ha tradito, trascinati dall'entusiasmo giù dalle discese e su per le salite delle piccole collinette che hanno caratterizzato tutto il percorso newyorkese. Non un chilometro piano e nemmeno una curva per molto, troppo tempo. Ad ogni miglio si sono alternati anche i ristori di acqua e sali minerali (faccio notare solo acqua e sali, nessun solido), con i volontari racchiusi nei loro ponchi verdi e le braccia tese ad offrire un bicchiere ristoratore. L'unico tratto di pausa lo abbiamo incontrato nel quartiere ebraico di Williamsburg (tra il sedicesimo e il diciassettesimo chilometro), dove la bolgia festante è stata improvvisamente sostituita da un passaggio anonimo e silenzioso, scandito solo dal rumore dei passi e la svogliata curiosità di qualche ortodosso racchiuso nella sua tipica divisa nera e bianca. Irreale, ma al tempo stesso curioso. Un intervallo quasi necessario per riprendere fiato dopo aver corso per miglia senza respiro, per poi ributtarci tra l'abbraccio della gente, quasi come ci trovassimo sul Passo del Mortirolo nel Giro d'Italia.
Mi sono perso più di una volta a leggere i cartelli tenuti alti sopra la testa dal pubblico, qualcuno (con tanto di foto) destinato ad amici i parenti in gara, altri ironici ("my daugther in faster than yours") o d'incoraggiamento ("the course will be with you", alla Star Wars). Ho premuto il pulsante "powerboost" per avere più energia (come incoraggiava a fare il cartello d'accompagnamento), ho riso vedendo padroni sostenere, in piedi, i propri barboncini giganti con le zampe protese per un cinque. Mi sono commosso battendo il mio ai bimbi più piccoli e più timidi che mi hanno ricordato Tommaso. Un susseguirsi di situazioni, scorci, emozioni che in un attimo ci hanno fatto ritrovare a metà gara, all'altezza del primo ponte, già al ventunesimo chilometro, all'entrata del Queens.
Queens
Ho salutato Emanuele, provando a fare quello che nelle mie intenzioni doveva essere il mio lunghissimo d'allenamento. Ho aumentato il passo, iniziando una serie infinita di sorpassi. Brooklyn, con il suo caldo abbraccio, è diventato un ricordo. La temperatura quasi improvvisamente è diminuita. Le strade hanno continuato a lanciare il loro assordante urlo accompagnandoci verso uno dei tratti più duri (e brutti) di tutto il percorso, il Queens Midtown Tunnel. Due chilometri in solitaria (se solitaria si può chiamare una corsa immersi continuamente tra migliaia di altri runners), prima in una lunga salita senza fine di un chilometro e mezzo (4' 35" il crono), poi in una discesa spacca gambe (3' 39") attratti come da un vortice dalla doppia curva che ci ha risucchiati verso la 1st Avenue. Sei interminabili lunghi e dritti chilometri tra i grattacieli di Manhattan. Un continuo sali-scendi tra due ali di pubblico troppo lontane perché il calore potesse avere la meglio sul freddo vento che ha iniziato a soffiare laterale ad ogni incrocio.
New York City Marathon: allenamento a Central Park con i ragazzi vincitori del contest MyFutureSelfNY (1), la felicità dell'arrivo (2), dopo il saluto a Peter Ciaccia (3) e la medaglia (4). Grazie a Pierluigi Benini per le fotografie.
Diversamente da quanto fatto ad inizio gara, mi sono concentrato più sulla corsa e la fatica piuttosto che sul contorno, seguendo la linea della mezzeria invece delle urla di incitamento del pubblico. Il tempo è quasi sembrato fermarsi, come in un videogioco dove i grattacieli scorrono sullo schermo e l'avatar rimane immobile. Il tifo è rimbombato nella testa, mentre i cartelli colorati alzati sopra le teste sembravano voler indicare la strada da seguire. Viali larghi e troppo alti per avere una giusta percezione dello spazio, misurata solo dal continuo sorpasso di chi ha continuato a correre al suo passo o cedendo alla fatica verso il muro del trentesimo chilometro della maratona.
Bronx
Credevo che le forze risparmiate ad inizio gara mi avrebbero fatto correre ben più agilmente, ma non avevo fatto i conti con le difficoltà della seconda parte di percorso. Ho spinto sentendo le gambe irrigidirsi miglio dopo miglio, capendo a mie spese che una maratona (facile o lenta che sia) è pur sempre una maratona. Ma il veloce passaggio nel Bronx ha anche segnato il giro di boa verso gli ultimi dieci chilometri in direzione Central Park e quel count-down prima di tagliare l'ennesimo traguardo.
Manhattan
Il ritorno a Manhattan è corrisposto all'ennesimo ultimo lungo rettilineo da affrontare. Ma con la sorpresa finale della salita più dura di tutto il tracciato, proprio poco prima di entrare a Central Park. Le due ali di folla che ci hanno accompagnato dal via della gara si sono prima sfilacciate per poi ricomporsi e rimpolparsi di miglia in miglia. L'ombra degli alberi ha reso l'atmosfera più cupa, e la strada da colorata è improvvisamente diventata grigia. Le gambe hanno perso la lucidità per scalare l'ultima vera salita. In tanti hanno mollato, arresi alla forza della maratona, ma nessuno è riuscito a fermarsi, sospinto dal clamore del pubblico che non concepisce un ritiro a pochi chilometri dall'arrivo. Un solo ultimo sforzo per lasciarsi alle spalle quel trentottesimo chilometro e varcare i cancelli di Central Park.
Central Park
Ho sempre pensato che gli ultimi quattro chilometri di gara all'interno del parco fossero i più duri e difficili. Mi sono sempre sbagliato. Nonostante le rapide (ma brevi) salite e discese e le continue curve tra gli alberi, le gambe hanno ripreso vitalità, sospinte in qualche maniera al limite da quei brevi tratti che si sono alternati tra di loro. I cinque e i cartelli degli abitanti di Brooklyn hanno lasciato il posto a macchine fotografiche e cellulari intenti ad immortalare gli ultimi momenti di gara di amici e parenti di chi si trovava in quel momento dentro alle transenne. E con l'ultimo residuo forze ci siamo ritrovati lungo la cinquantanovesima, verso Columbus Circle e quell'ultima svolta prima del traguardo finale. Il boato che ci ha accolto è stato quasi assordante. Le forze sono rinate quasi istantaneamente, insieme alla consapevolezza di essere ormai all'epilogo, indeciso se volersi buttare verso la gioia finale o continuare a correre all'infinito trascinato dalla forze e l'entusiasmo di una intera città.
Gli ultimi cinquecento metri li avevo già visti, sognati, corsi decine di volte. Ma mai li avevo vissuti in quel finale di gara. Una vera passerella dove la salita finale è scomparsa di fronte all'incitamento costante di tutto il pubblico presente. Un corridoio bardato a festa, con le bandiere di tutte le nazioni presenti, cartelloni, tribune strapiene. E' bastato che qualche compagno di quegli ultimi momenti coinvolgesse il pubblico per far esplodere applausi scroscianti. Emozioni che sono cresciute di passo in passo, con il ritmo delle gambe quasi a frenarsi per non mettere la parola fine a quel momento varcando la linea del traguardo. Io ho cercato l'obiettivo di Pierluigi, appostato insieme ad altre decine di fotografi sul ponte oltre l'arrivo. Ho alzato le braccia senza quasi accorgermene senza lasciare spegnere quel sorriso che mi ha accompagnato per 3h 04'. Il primo saluto e l'ultimo cinque, l'ho dato a Peter Ciaccia (presidente della New York City Marathon) presente lì sul traguardo, ad attendere tutti gli arrivati, a dare il benvenuto nella grande famiglia dei finisher della Grande Mela.
Quando sei mesi fa il progetto MyFutureSelfNY con Runner's World e New Balance è iniziato, mai avrei pensato di poter vivere tutto questo. Come mai avrei pensato un giorno di trovarmi su quella linea di partenza. Tante volte, parlando di running con i tanti che ancora non corrono o lo fanno da poco, mi è stato chiesto: "Hai fatto anche la Maratona di New York?". Ho sempre sorriso, pensando all'ingenuità e alla scontatezza della domanda, come se senza aver corso a New York uno non potesse essere considerato un maratoneta. Certamente la mia considerazione non è cambiata. Non è certo correndo tra i cinque distretti che si diventa maratoneti. Ma oggi posso finalmente rispondere in maniera differente: "Si l'ho corsa. Ed è stata l'esperienza più bella che abbia mai fatto". Maratonalmente parlando.
Volevo scrivere una considerazione che esula un po' dal racconto della gara. Perché credo, rispetto a molti altri, di essere stato più fortunato. Ho affrontato la New York City Marathon senza pensare al crono. Avrei voluto correrla sotto le tre ore, ma avendo deciso di partire a ritmo lento, sono sempre stato consapevole che non avrei avuto la possibilità di recuperare il tempo perso nella seconda parte. Ma adesso, a posteriori, non posso che essere felice di questa scelta. Se la strategia di gara fosse stata diversa, non mi sarei goduto appieno tutto lo spettacolo, non sarei stato travolto da quel vortice di emozioni che mi ha accompagnato per quarantadue chilometri, non avrei scoperto certamente la vera essenza di New York. E' stato un caso, ma se tornassi indietro, rifarei ancora tutto da capo, esattamente per come è stato. Non vale la pena sprecare un'occasione così per qualche secondo o minuto in meno. Se su più di cinquantamila partenti il numero di ritirati è stato solo di cinquecento (non credo ci sia un'altra maratona al mondo con una così alta percentuale di arrivati) vuol dire che la New York City Marathon ha davvero quel qualcosa in più. Se avrete la possibilità di correrla non fatevela scappare. Ma non fate l'errore di scambiare qualche secondo sul cronometro con anche solo qualche grammo di felicità.
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