Boston Marathon
Ci ho pensato molto se scrivere qualche riga. Ho pensato molto a cosa scrivere. Ho pensato. A quello che è il significato della maratona. Per chi corre e per chi assiste. Ho pensato a quante ho visto un padre prendere in braccio il proprio figlio al di là delle transenne a poche decine di metri dall'arrivo, tenerlo per mano e correre insieme fino alla linea del traguardo. Ho pensato a quanti occhi pieni di lacrime di commozione e gioia sono passati sotto il gonfiabile di quell'arrivo. Ho pensato a quanti sono stramazzati a terra, inermi, ma col sorriso sulle labbra un metro dopo aver terminato i loro quarantaduemilacentonovantacinquemetri.
Ho pensato a tutti quelli che hanno aiutato un amico o uno sconosciuto a non mollare prima della fine incoraggiandolo, trascinandolo. Ho pensato a tutte le volte che sono passato in mezzo a quelle due ali di folla festante che urla e applaude guardandoti correre anche se non ti conosce. Sogni. Sogni ed emozioni che si condensano e realizzano in pochi metri. In pochi attimi. Quelli che sono bastati per trasformare tutto in un incubo. La maratona è forse il più grande simbolo di festa nello sport. Ed è anche diventata simbolo di solidarietà. Amicizia. Gioia. Sacrificio. Passione. Pace. Ed hanno voluto colpirne proprio il cuore. Dove sapevano che avrebbero fatto male. Ma non hanno capito d'aver fatto la scelta sbagliata. Qualsiasi runner, ieri sera, ha sentito una fitta al petto. Al cuore. Nell'anima. Chiunque è rimasto incredulo, inerme, davanti alle immagini di quell'arrivo. Ma tutti oggi faranno come Bill, settantottenne stordito e crollato a terra a pochi metri dal traguardo. Si alzeranno e continueranno a correre.