La più grande vittoria del runner
La salute è (e dovrebbe essere) qualcosa su cui non si scherza. Sempre. Ma molte volte, annebbiati dalla sbornia dovuta a qualche secondo in meno sul cronometro, ce lo dimentichiamo. Corriamo (e dovremmo correre) per stare bene. Per raggiungere il meglio di noi stessi, ma sempre rispettandoci, consapevoli ognuno dei propri limiti. Non siamo più bambini (purtroppo).
La maggior parte delle migliaia di amatori che ogni giorno affollano le strade delle nostre città ha iniziato a correre per stare bene. Chi per perdere qualche chilo di troppo e rientrare in quei jeans troppo stretti, chi per rimanere in allenamento quando gli infortuni alle partite di calcetto del giovedì sera diventavano ormai troppi, chi per ordine del medico corso ai ripari dopo una serie di esami del sangue troppo sballati, chi per provare a rivivere una seconda giovinezza seguendo le gesta eroiche del proprio collega d’ufficio. E questo (lo stare bene, intendo) ce lo dovremmo sempre ricordare. Dovremmo scriverlo a caratteri cubitali e stamparlo, appenderlo dietro la porta di casa e leggerlo ogni giorno prima di uscire ad allenarci. Stare bene. Questo il primo obiettivo. Tutto il resto dovrebbe venire dopo.
Che non vuol dire rinunciare alle nostre soddisfazioni personali. So bene cosa voglia dire combattere e soffrire per migliorarsi. Cosa significhi avere quella motivazione che ti fa uscire a correre ad ogni ora del giorno e in qualsiasi condizione climatica. Ma spesso, questa frenesia, ha la meglio anche sul buon senso. In troppe occasioni. Ed è proprio in questi momenti che dovremmo essere capaci di ragionare più con la mente che con il cuore.
Lo dico in questi giorni in cui purtroppo il mio essere agonista è un ricordo da troppo tempo. Ne soffro. Perché non trovarmi più al via con un pettorale spillato alla canottiera, con l’adrenalina alle stelle per provare a battermi un’altra volta, è una sensazione che mi manca. Tanto. Come mi manca non studiare attentamente ogni allenamento, incastrandolo con orari e impegni pur di essere al meglio per affrontarlo e dire ce l’ho fatta.
Ma questo mio essere distaccato, lontano, privo di legami (come in una situazione extracorporea) mi permette di essere molto più lucido e capire cosa sia davvero più importante (giusto?) e spesso ci dimentichiamo.
Ascoltarsi. La prima regola che bisogna imparare. Ascoltarsi. Non chiedere pareri a compagni, medici, massaggiatori, fisioterapisti, santi. Imparare a conoscere sé stessi e fidarsi delle proprie sensazioni, senza tradirsi, senza giustificarsi, senza prendersi in giro. Quando quella fitta al polpaccio diventa persistente, capiamo subito se può essere qualcosa di un po’ più grave. Inutile correrci sopra per forza. Un giorno in più di riposo è sufficiente per capire se fosse solo un sovraccarico, una piccola contrattura o qualcosa di più grave. Un giorno in più o un giorno in meno di corsa non cambiano la sostanza dei nostri allenamenti, né i risultati. Ma possono salvarci da uno stop più lungo se invece facciamo finta di niente e continuiamo a correre imperterriti con il paraocchi. Arrivare zoppicanti alla fine di una gara, che sia una dieci chilometri o sia una maratona, non è da eroi. È da stupidi (ricordatevi che quando un top runner ha qualche problema, non tiene duro fino alla fine, ma si ferma, perché sa che facendo il contrario peggiorerà solamente la sua situazione).
Tutto questo articolo ha preso spunto (e poi si è sviluppato) dall’ennesima notizia che ho letto in questi giorni, di un podista morto ad una gara. Mi chiedo ancora com’è possibile. Tutti quelli che corrono agonisticamente (parliamo quindi di gare Fidal) hanno l’obbligo di presentare un certificato medico alla propria società e alla Federazione (non mi esprimo su chi pensa di essere furbo e presenta certificati medici falsificati o rilasciati da medici amici e/o compiacenti). Come è possibile che ci sia ancora qualcuno che muoia per uno sforzo fisico troppo elevato? A cosa serve avere un certificato, se questo non è in grado di garantire la nostra salute? Per quale motivo ogni hanno dobbiamo sottoporci a degli esami medici, se poi questi non hanno alcun valore?
Se la prova da sforzo (che in realtà poi non è una reale prova sotto sforzo) che viene fatta comunemente con il gradino o il cicloergometro (raro che venga fatta utilizzando un ergometro) non è sufficientemente veritiera, allora cambiamola. O togliamola. Non ha senso fare un esame se questo non è in grado di prevedere ciò per cui viene prescritto.
Avendo lavorato per anni in una società che produceva macchinari per esami cardiologici (ed avendoli anche testati personalmente) so bene cosa comporti fare un esame approfondito. Fatica, tempo e denaro. Ma con un fine e un risultato decisamente differenti da quelli attuali.
Più di una volta mi è capitato di sentire parlare di lobby della medicina sportiva, riferendosi al fatto che in Italia non verrà mai tolta l’obbligatorietà della visita medica agonistica per i milioni di euro che ogni anno vengono generati attorno a questa tipologia di esami. Che sia vero o non vero non importa (o meglio non è questa la sede per parlarne). Quello che conta è che venga salvaguardata la salute di chi decide di praticare una qualsiasi disciplina sportiva. Pagare. Ma per qualcosa che abbia davvero valore.
Mi è poi capitato di assistere, in varie occasioni, all’intervento medico da parte di sanitari verso qualcuno che ha avuto problemi di salute durante una gara. Ho anche a che fare spesso, per lavoro, con chi gestisce e organizza il soccorso medico in varie manifestazioni sportive di carattere nazionale e internazionale. Ho anche visto, mio malgrado, organizzazioni limitare il proprio pronto soccorso alla presenza di una semplice ambulanza alla partenza-arrivo di una gara. Anche questo fa parte della nostra salute. Anche di questo dovremmo preoccuparci.
Avete mai pensato, prima di correre una gara, come i soccorsi possano arrivare a raggiungere chi ha bisogno, tempestivamente e in modo sicuro, in qualsiasi punto del percorso? Credo di no (o almeno, io non ci avevo mai pensato prima di lavorarci a stretto contatto). Pensiamo ad una dieci chilometri che si corra tra le strade del paese. Incidente, l’ambulanza alla partenza viene allertata, parte seguendo il percorso e nel giro di pochi minuti arriva sul posto a curare il malcapitato. Servizio ineccepibile. Paziente salvo. Ma se la stesse gara si fosse corsa per una parte lungo i sentieri scoscesi nel bosco lungo le rive del fiume? Se invece di dieci i chilometri fossero stati trenta? O cinquanta? Non limitiamo a pensare che basti stare bene e avere un certificato medico (approssimativo) per essere tranquilli quando corriamo. Molto spesso ci lamentiamo dei costi troppo alti di certe gare (ne avevo già parlato qui), ma non ci rendiamo conto di quali e quanti possano essere i servizi (utili) che ci vengono offerti o tolti.
Cosa dire poi di chi pone il risultato davanti a tutto, anche prima della propria salute? Mi riferisco al doping. Al di là del problema etico (alla pari di chi taglia o utilizza bici, metropolitana, auto...) chi si dopa non ha scusanti. Non ha capito cosa sia lo sport, la bellezza del risultato sulla base del sacrifico, l’importanza dell’essere in salute. Soprattutto non ha mai imparato a volersi bene.
Pretendiamo di correre e stare bene. Dagli altri. Ma prima di tutto da noi stessi.