Portland, dove corrono i campioni
Correre dove corrono i campioni. Dove nascono. Dove lo diventano. E' il sogno di chiunque faccia sport. Come giocare al Meazza. Vedere quello che si prova, sentire le vibrazioni lasciate sul campo, vivere dentro e non solo rincorrere. Quando poi ci si trova catapultati tra le corsie di una rossa striscia di tartan immersa in un bosco con gli alberi a fare da spettatori il sogno è completo. Non importa altro che correre. I piedi scottano [scattano] nonostante la fresca ombra di un mattino a gennaio. Il cronometro che di solito scalpita ad ogni chilometro lasciato alle spalle, diventa solo il diario da rileggere una volta a casa. Non serve allenamento, non serve essere al meglio, importa solo dare il massimo. Seguire la maglia gialla che conta i giri e batte il ritmo sempre più forte. Provare a cercare i segni di chi ha fatto la storia, aggrapparsi alla sua scia e lasciarsi trasportare. Un attimo. E poi tagliare il traguardo.
E con questa il pacchetto-corse è più che completo. Peccato che forse mi porterò a casa qualcosa più che un semplice ricordo. Della fitta che ho sentito al quadricipite della coscia destra durante l'ultima ripetuta ne avrei fatto volentieri a meno. Anche perché finalmente gli amati addominali sembravano essersi stabilizzati. E pensare che proprio in questi giorni ragionavo sul fatto che uno dei pochi muscoli a cui non avevo ancora avuto grossi problemi (se non di carico) era proprio il quadricipite. Ma niente nasce per caso. E purtroppo di questo me ne sono accorto solo alla fine, trasportato com'ero dall'esserci e dal viverlo. Calcare il Michael Johnson Track al Nike World Headquarters insieme a Shelly-Ann Fraser-Pryce (pluricampionessa giamaicana mondiale e olimpionica dei 100 e 200 m, nda), sotto la speciale guida di Coach Bennett e dei ragazzi del Portland Nike Club è un'esperienza in cui si può solo dare il massimo.
E l'allenamento è stato tutt'altro che leggero. Serie di ripetute a piramide con test sui vari ritmi per le distanze di 5-10-21-42 Km. Strano, mai provato, ma molto interessante. Soprattutto per i ritmi che abbiamo tenuto e che ho scoperto solo rileggendo il tracciato del gps (peccato aver perso il segnale nella prima parte di allenamento). Non a caso qualcuno del gruppo è stato perso strada facendo. 3x200 + 1x400 + 1x800 + 1+400 + 1x800 + 1x400 + 3x200, con recupero variabile in movimento o da fermo tra i 30" e i 60" e velocità di volta in volta diversa in base alle simulazioni delle distanze. Non mi sono mai preoccupato di nulla, se non di rompere il fiato il prima possibile (le prime serie di duecento metri sono state forse le più pesanti) e fare girare le gambe senza perdere terreno dai (giovani) pacers davanti a noi. Mi sono accorto di fare fatica, ma non ho subito realizzato il motivo. Sapevo di essere in debito viste le disavventure dell'ultimo mese, per cui non me ne sono preoccupato troppo. Ed è stato bello sentire le gambe alzarsi e ricadere senza problemi, avere il ritmo sotto controllo, sapere di poter competere. L'incitamento del coach e la forza del gruppo hanno fatto il resto. Li sentivo parlare dei ritmi da tenere di volta in volta, ma parlando in miglia e non avendo riferimenti non ci ho fatto troppo caso. E scoprire che i 30" sui 200 m valgono i 2' 30" al chilometro (certo, arrivare alla fine del chilometro è ancora lunga) è stata una bella sorpresa. Se me lo avessero detto prima, se ne fossi stato consapevole o se avessi corso da solo, sono quasi certo che non ce l'avrei fatta. La testa non ce l'avrebbe fatta. Per battere gli altri, bisogna prima battere sé stessi.