Correre a 45 anni
Da oggi sono ufficialmente (e anagraficamente) un SM45, ossia un Seniores Master di 45 anni. Quarantacinque. E come ogni anno mi sono regalato un piccola corsetta per festeggiare. Anche se non avrei dovuto (visto il giorno di riposo che mi ero dato). Anche se la schiena questa mattina non era d’accordo. Ma non ho potuto dire di no a una sudata insieme a Chiara, dopo quasi un anno che non correvamo insieme.
Anche se la FIDAL considera il primo di gennaio come inizio di ogni nuova categoria, quest’anno non appaio ancora all’interno di nessun albo podistico. Così sarà davvero da quarantacinquenne il mio debutto del prossimo autunno (incrociamo le dita).
La letteratura podistica indica i quarantacinque anni come possibile punto di non-ritorno. L’età in cui le prestazioni cominciano lentamente ma inevitabilmente a peggiorare. Lo spartiacque tra la possibile evoluzione e involuzione dell’attività fisica atletica. L’età critica. Quella da cui si passa ad essere “ancora” giovani a quella in cui ci si accorge di essere "vecchi". Quella in cui c’è un'inevitabile parabola verso il basso della propria prestazione atletica. Potrei citare esempi estremi (come Franco o Massi) di chi invece è (o è stato) in grado di evolvere ancora, ma sarebbero esclusivamente casi più unici che rari. Le eccezioni che confermano la regola.
Più in generale, in realtà, è sufficiente rendersi conto di quelle che sono le proprie capacità e le possibili aspirazioni per trovare un equilibrio che possa permettere di non arrendersi al declino naturale del fisico. Non esagerare con le gare, con le prestazioni ad ogni costo, con la qualità come se il tempo si fosse fermato a dieci anni prima. E soprattutto cercare di infortunarsi il meno possibile. Se correre veloci come una volta è ancora possibile (con la giusta consapevolezza), ciò che è inevitabilmente diverso è il tempo di recupero. Quello che non permette di essere costanti nei propri allenamenti. Quello che fa regredire il proprio stato di forma. E ritornare a livello è sempre più dura (ma non impossibile).
La difficoltà maggiore forse è quella di non riuscire ad arrendersi all’idea di non poter essere più come prima. Di cambiare la propria visione di corse, allenamenti, obiettivi. Ma con il tempo e l’esperienza (magari sbattendo anche un po’ la testa) prima o poi si arriva anche a quello. Che non vuol dire rinunciare. A niente. Solo avere un approccio più consapevole rispetto alle proprie “nuove” capacità.
Chi ha avuto la fortuna (e la capacità) di arrivare a quarantacinque anni senza infortuni, allenandosi costantemente, evolvendo sempre nel tempo, non si ritroverà probabilmente nelle mie parole. Perché è proprio quello il segreto della corsa. Non fermarsi mai. Che non vuol dire aumentare il carico o correre ogni giorno, ma semplicemente non esagerare prima per pagarne le conseguenze poi. Ci vuole anche un po’ di fortuna, perché non tutti siamo fatti uguali. C’è chi è più portato e chi meno (come c’è chi corre la maratona in due ore e chi in quattro).
Tutto questo non vuol dire che mi sono arreso o che voglia appendere le scarpe al chiodo. Anzi. Sono solo forse più saggio. Consapevole. Realista. Ancora più motivato a ripuntarmi quel maledetto pettorale e a correre nuovamente quei quarantadue chilometri. Ma gustandomi ogni corsa e allenamento con un sapore diverso. Come un regalo da scartare ogni volta che corro.